Può un non-scrittore avere la
crisi del foglio bianco?
In teoria no, ma si sa le teorie spesso con la realtà,
sorprendentemente, non hanno punti d’incontro. Io infatti non sono uno
scrittore eppure ce l’ho.
La chiamo talvolta crisi artistica, altre volte mi
piace chiamarla Martina Scavi, così perché è bello dare un nome alle cose. Anche
un cognome, a volte.
E sino a stasera ce l’ho
avuta, cazzo, la Martina Scavi dico. Voler scrivere qualcosa e non riuscirci, perché hai un blocco creativo/artistico/simpatico/comunicativo.. è
brutto.
Eppure poi arriva il giorno che
passa. Basta trascurare la tv, mettere sul canale 700 di sky entrare nelle web
radio e sintonizzare su Rock Nation che senza pubblicità offre a rotazione belle
canzoni rock di ogni decennio. Che poi ora che ci ragiono, come fa a vivere
senza pubblicità una emittente del genere? Sarebbe da andarci a fondo, ma non
lo farò, perché sono pigro. Sta di fatto che in questo modo si crea la giusta
atmosfera che fa venir voglia di scrivere le cose.
E così ripenso un po’ a queste
ultime settimane vissute tra piccoli e grandi impegni, tallonato da problemi
alla mia zampa sinistra che paiono non passare mai e proprio a tal proposito citerò
un aneddoto che è la fotografia che ben inquadra il momento sfigamolle che sto
attraversando.
Ennesima risonanza del 2013, la
quinta se non sbaglio. Ed io non sbaglio.
Per chi non l’avesse mai fatta,
immaginate di essere infornati tramite un lettino scorrevole in un forno a
legna tipo quello delle pizze, solo un po’ più tozzo. Bene. Ora prendete una
grossa lavatrice industriale, un martello pneumatico e un team di muratori
armati di arnesi a caso e urlate “Pronti.. Via!” .. e via tutti insieme per 25
minuti. Ecco, esattamente così.
Ebbene, ne ho fatte talmente
tante che inizio a trovare una musicalità in quel frastuono disordinato. E’
diventato un genere che apprezzo più della musica Techno Hardcore e di Gigi D’Alessio,
il quale, va detto per correttezza, lo metto dietro anche alla gara di rutti della
festa della birra di Larciano (PT).
Per non farci mancare nulla, me
l’hanno fissata a Padova. Padova non è lontana per uno che sta chessò… a Padova
per esempio. Per uno che sta a Modena invece è lontana. Tanto per fare un
parallelo, è come se ad uno di Padova la fissassero chessò.. a Modena, ecco,
per capirci. Già… Tipo 300 km andare e tornare.
“Vai lì alle 17,30, porta l’impegnativa,
paghi e ti danno subito l’esito alla fine” – così parlò il mio medico e alla
mia richiesta del nome della clinica lui categorico - “Non puoi sbagliare,
uscita Monselice, ci sono subito i cartelli che ti portano alla clinica”..
Abbagliato da tanta convinzione non faccio più domande e parto. Arrivato a Bologna
manco clamorosamente lo svincolo per Padova, idiota.
Rimessomi in carreggiata
proseguo, annoiato, verso l’uscita Monselice che poi ci sono i cartelli facili.
Esco, preoccupato di non vedere alcun cartello e invece mi si para davanti un
enorme insegna MEDI CLINIC con tanto di immagine della struttura. Aveva ragione
lui. Seguo le indicazioni e arrivo con una manciata di minuti di anticipo alla
clinica... sbagliata!!! Se non altro la receptionist si è fatta una gran risata
alla mia frase di congedo: “Bene dai, anche oggi la mia figura di merda l’ho
fatta, alla prossima, arrivederci!” e via verso la clinica giusta, ottenuta
dopo una chiamata al doc!
Mentre aspetto il mio turno
gioco a ruzzle, che mi ha ampiamente rotto le palle, ma devo ammettere che nei
tempi morti svolge ancora bene la sua funzione. Certo che ogni volta a dover inanellare
la noiosa ma redditizia serie di “ara-arai-are-ina-teri-aia-pia-poi..” ci si
spacca la minchia. Che poi dopo mesi ancora non ho imparato che “Tera” non lo
da buono e testardo lo digito ottenendo il meritato suono di errore.
Ecco la donnina chiamarmi, è
giunto il momento del rumoroso esame. Ella si dimostra da subito estremamente
cordiale, anche troppo.. quel tipo di persone che ci tengono a far capire la
bontà delle proprie azioni e che mentre fanno le cose le dicono usando il
plurale “Adesso mettiamo qui la cartelletta con tutte le documentazioni così
non le perdiamo, poi compiliamo questo foglio” e lo fa lei. Cordiale si, ma
ingannevole.
Il macchinario non è il convenzionale, quello
a cui ho fatto riferimento prima, è un po’ diverso. Ed infatti è macchinario
adatto soltanto alle articolazioni, limitatamente a quelle, ed io necessito di
una più ampia sezione della gamba, dal ginocchio in giù. Appresa la notizia, la
gentil donnina non si scompone ed anzi si prodiga a trovar soluzione.. e cazzo
la trova. “Ne facciamo due, in due diverse sezioni”. Non lo do a vedere, ma a
me pare una soluzione di una pochezza rara, un lavoro fatto un po’ col culo,
raffazzonato in qualche modo. Dico che va bene.
L’infinita cinquantina di
minuti per le due risonanze passa, ed io ringrazio il cielo perché dover stare
immobile, nel baccano, per quanto in posizione sommariamente comoda, dopo un po’
ti crea cazzo di tensioni alla schiena e agli adduttori.. per non parlare poi
se ti viene prurito al piede.. Insomma, una risonanza è per gente cazzuta,
figuriamoci due!
Ringrazio la donna, che sempre
con fare estremamente cordiale mi dice di attendere alcuni minuti nella sala d’aspetto,
però non quella in cui aspettavo prima della risonanza, ma quella più avanti, passando
il corridoio e mantenendo la destra, dove vedo la scritta ritiro esiti... e me
lo ripete una seconda volta per essere ancora più chiara, ma io avevo già
capito a metà della prima spiegazione, anche perché non siamo al St. Francis
Memorial Hospital di San Francisco, è una clinica di Monselice, bellina ed
efficiente per carità, ma piccolina. Mi avvio..
Nell’attesa dei miei esiti, un
po’ teso perché spero vi siano notizie finalmente positive, mi chiedo quando e
se rivedrò mai quella gentile signora e del senso di questi incontri. Persone che
vedi una volta nella vita, con cui hai a che fare, scambi due battute e poi non
le rivedi più. Punti di contatto fugaci che il più delle volte durano l’arco di
una giornata per poi essere dimenticati tornando a casa.. chissà quando la
rivedrò un cazzo, eccola che torna e dice di seguirla. La seguo confuso, magari
mi vuol far parlare direttamente col dottore refertatore, forse sono un cleptomane
e ho rubato delle robe, che ne so..
Arriviamo in un’altra sala
medica, vedo un macchinario molto più simile alla solita risonanza e: “Guarda
scusa ma..ti devi togliere tutti gli oggetti
metallici e mettere quel camice e vieni che ne facciamo un’altra”
Facciamo? Io ne faccio un’altra! Cazzoooo.
Mi spiega che l’impegnativa
parlava di caviglia, che doveva esserci scritto arto.. e che quella che andavo
a fare era più completa. Si scusa ripetutamente, ma in effetti non dovrebbe,
non è colpa sua.. ma si sa, certe persone, squisite, ti chiedono scusa a
prescindere. Mi pesa da matti, ma mi adagio sul lettino, mi infilano, altro
frastuono interminabile.. sorrido per lunghi tratti della terza risonanza
giornaliera, un po’ perché voglio sdrammatizzare e un po’ perché è una risata
isterica, quella che precede la pazzìa.
Terminato il terzo ed ultimo
atto guardo l’orologio, le 20 sono passate da una decina di minuti. Affaticato dopo
il pomeriggio trascorso tra macchina e ‘cantiere’ mi sollevo e vado a
rivestirmi. Penso siano finite le beffe di quel giorno e invece ce n’è un’ultima,
il colpo di coda. Visto l’orario inoltrato, il refertatore è (giustamente)
andato a casa dalla famiglia, quindi gli esiti li avrò soltanto all’indomani. Bene.
Neanche torno a casa con gli esiti. Avevo avvisato 50 persone che avrei fatto
sapere gli esiti entro sera.. perfetto.
C’è sempre un lietofine però. E
me lo regala lei, la persona più influente di quella mia giornata. La donnina d’animo
buono. Si scusa per la quattordicesima volta se non sbaglio, ed io non sbaglio,
e mi lascia con una frase che recita testualmente:
“Mi spiace, bastava compilare
diversamente la ricetta e saresti venuto direttamente in quest’ultima macchina
a fare la risonanza, dritto come l’olio”.
Dritto come l’olio. Questa me
la segno, ho pensato.