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venerdì 17 agosto 2012

ASCENSORE

Ascensore. Forse il posto peggiore per un essere umano creato dall’umano stesso, dove la mente è messa a dura prova, dove trattati socio-psicologici attingono a piene mani, dove sei costretto a rimanere a contatto con persone per cui pagheresti volentieri un’ordinanza restrittiva, dove la società non conta più, dove il proprio spazio vitale viene minacciato all’inverosimile, dove si torna allo stato primitivo, si mostra il lato animale del proprio essere... lo specchio dell’anima. Ascensore, dove solo i più forti escono vincitori.
Oggi così mi sento, mi sento forte, mi sento confident, una mattina come le altre per il mondo ma non per me, oggi mi sento immotivatamente dominante, maschio alfa, leader, capobranco e capobanda e lo voglio dimostrare dove conta, dove è difficile emergere, nell’elevatore meccanico, il lift lo chiamano gli svizzeri, banco di prova lo chiamo io.
Lo aspetto con ansia, come fossi davanti al mio destino, come fosse il treno che mi porterà via per sempre, come fosse l’appuntamento con la storia in cui non puoi fallire e poi d’improvviso ci siamo, si aprono le porte... è sempre lui, piccolo, vecchio, ad un passo dalla pensione, sembra impossibile che possa trasportare 2 persone figurarsi i 680Kg che assicurano baldanzosi i produttori, ma non oggi, oggi per me si sono spalancate le porte di un maestoso colosseo, vedo un arena innanzi a me, ma io quest’oggi sono la bestia, quella anche mezza aliena che solo in un film di supereroi può morire perchè è tanto palese quanto evidente che il divario fisico è troppo ampio affinchè possa anche solo prendere in considerazione di soccombere. Poi vedo lui, il minuto gladiatore che con Russell Crowe non ha davvero nulla da spartire, l’agnello sacrificale, la preda prescelta, la gazzella di Piero Angela, lo Gnu che si abbevera incurante al fiume in un documentario su quanto sia letale un coccodrillo, è il debole che per definizione rende qualcun’altro forte. Grazie Dio, grazie di averlo fatto comparire nel posto giusto al momento giusto. Entro fissandolo, spavaldo e felpato come un’affascinante tigre del bengala creata al computer da una sapiente mano, non lo saluto e lui non ha il coraggio di farlo, non è il caso, non sarà un bel viaggio per lui e sembra averne il sentore. Schiaccio il numero quattro e noto che uno dei pulsanti è già selezionato, lo guardo ed esclamo severo “Chi va al tre?!”. La sua reazione è confusa ed agitata, siamo solo in due, non può essere una domanda seria eppure io non tremo, non rido, mostro un impercettibile ghigno per farlo quasi rilassare ma è solo la calma prima della tempesta, l’assaggio del paradiso quando ti meriti l’inferno. Torno serio, autorevole, quasi cattivo, lo fisso spazientito da una risposta che tarda ad arrivare, al che il malcapitato è costretto a rispondere con fievole e balbettante voce “Io...”.
Annuisco. Non mi interessa la risposta, mi interessa sentirglielo dire, sentire che ha paura, fargli sentire che ha paura. Mi interessa fargli capire che la specie dominante pare sia l’uomo, ma di sicuro non lui.
Avanzo. Mi porto al centro dell’ascensore e lui si ritira come una chiocciola nel suo guscio, ma il guscio non c’è, si schiaccia nell’angolo come il proverbiale pugile in attesa del gong, ma stavolta non serve neanche menarlo, la mia presenza lo indispone il mio sguardo lo minaccia, lo osservo ma lui non lo sa perché guarda fisso il tagliandino con scritto il numero da chiamare in caso di emergenza, che poi chissà da quanto è li e chissà se rispondono veramente 24 ore su 24 come quel pezzettino di carta pomposamente decanta. Continua a guardarlo come volesse memorizzarlo una volta per tutte quel maledetto numero, ma io so che il suo nervo ottico non trasporta realmente l’immagine al cervello, sta solo pregando, pregando che oggi quell’ascensore vada più veloce del solito, per un motivo che in fondo non può esistere, che finisca questa straziante agonia, capisce finalmente il senso della tanta chiaccherata eutanasia. Io godo, mi sento più bello, più alto, più grosso, la percezione di me stesso è quella di un gigante di fronte ad una formica, anche un pò più mingherlina del solito perché non viene da una famiglia di formicone e da piccola inoltre ha avuto delle malattie, anche le formiche ce le hanno.
Ed infine si spalancano le porte, tocca a lui uscire e vedo che con la coda dell’occhio osserva la tanto agognata luce alla fine del tunnel con lo sguardo di un beduino che vede la sua amata oasi, è però nell’angolo distante dall’uscita. Brutto errore penso, ma in fondo ce l’ho cacciato io. Colto da un momento di buonismo mi scosto pacatamente e gli faccio strada, potrei non farlo, ma ho già tagliato il traguardo, ho delirio di onnipotenza, sento che potrei forzarlo a salire al piano successivo se solo volessi ma sono uno sportivo, non è giusto infierire sugli sconfitti, non è nel mio stile. Esce, il cane, con la coda in mezzo alle gambe, a testa bassa e ricolmo di vergogna, non credo sia rimasto un briciolo di personalità in quell’insulso corpo. Non saluto, non saluta, sa in fondo che non ne è certo degno, alla fine mi spiace quasi un pò... o forse no.

Ecco, questo è come credo l’abbia vissuta lui. Io ero la preda.